Lo stile di Alexandre Farto, in arte Vhils, è molto simile al concetto di Parkour.

Questa disciplina, nata in Francia alla fine degli anni ottanta, “consiste nel superare qualsiasi genere di ostacolo, (…) adattando il proprio corpo all’ambiente circostante” .

Guardando le opere di Alexandre, la sensazione è molto simile; stencil che diventano una cosa sola con le superfici, perdendo l’arroganza del volersi mostrare a tutti i costi.
Cresciuto a Lisbona, nel periodo appena successivo la fine dell’Estado Novo, il fascismo portoghese, inizia a scalfire i muri della città con scalpello, acidi e strumenti brutali, rimpiazzando i manifesti pubblicitari strappati con volti umani sconosciuti, ma dalla forte carica espressiva.

Anche se non sembra ad una prima occhiata, esiste una forte relazione tra le opere di Farto e la mutevolezza della natura: grazie a materiali come la candeggina e la vernice a spruzzo, Vhils non ottiene mai la piena gestione dell’opera.

Il risultato, come accade in natura, lo raggiunge dopo essere passato attraverso diversi stati di mutazione, cambiamento, trasformazione; un modus operandi che non solo non vuole controllare, ma addirittura istigare: un processo di escavazione che porta in superficie la vera anima delle cose.

Ultimamente Vhils ha provato a sperimentare nuovi progetti, utilizzando l’esplosivo come strumento.

Si sono spenti a distanza di qualche settimana due maestri del panorama artistico attuale, Cy Twombly e Lucian Freud. Diametralmente opposti per cultura, background, linguaggio espressivo e storia personale, avevano in comune, ormai da anni, il riconoscimento della critica internazionale e la fama di essere i più importanti artisti contemporanei ancora in vita. Due grandi personalità molto diverse tra loro: schivo, provocatorio e ribelle ad ogni etichetta Lucian Freud; silenzioso, riflessivo e colto,  Cy Twombly.  Così pure la loro arte rappresenta mondi quasi in contrapposizione. Freud ha privilegiato sempre la ricerca del vero e del reale. La sua pittura espone la prorompente fisicità del corpo con ogni piccolo particolare che l’occhio dell’artista riesce a carpire, svelandone i segni del tempo, le imperfezioni e i difetti con pennellate dense di materia e colore.

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Nato a Berlino nel 1922, nipote di Sigmund Freud, dopo l’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler – nel 1933 si trasferì nel Regno Unito con la famiglia, ottenendo in seguito la naturalizzazione britannica.

Freud fu soprattutto un ritrattista e, con Francis Bacon, il maggior rappresentante della “Scuola di Londra”: famosi nel mondo i suoi ritratti, i nudi, i volti dei suoi personaggi famosi (come la Regina Elisabetta e Kate Moss) scavati in un realismo neo-espressionista che era il suo tratto distintivo. Nelle sue opere, spesso scioccanti per la crudezza dei particolari, amava ritrarre persone che conosceva bene, i suoi amici, le sue compagne, i suoi figli.

Collega, amico, amante di Francis Bacon, che gli ha dedicato un celeberrimo Portrait: come lui Freud è un pittore della figura e la sua opera si compone quasi interamente di ritratti, autoritratti, nudi, realizzati con pennellate “sporche”, dense, con pigmenti pesanti ad alto contenuto di ossido di piombo e basso contenuto di olio, definendo così il caratteristico tono bianco traslucido delle sue raffigurazioni.

E’ un figurativismo, quello di Freud, intriso di Espressionismo, con molti riferimenti alla tradizione classica nel quale risalta la totale mancanza di idealizzazione, il disagio del soggetto sotto lo sguardo critico dell’artista, che raffigura con implacabile tetraggine modelli che non sorridono mai.

La figuratività di Lucian Freud svela i segreti della carne e coglie la psicologia dei suoi modelli con una tale scaltrezza ed abilità da saper impressionare lo spettatore. Memorabile, non solo per l’eccezionale quotazione raggiunta, rimane il famoso ritratto di Big Sue. “Voglio che la pittura sia carne”, era il motto dell’artista. Lo diceva lui stesso. E le sue parole si trasformavano in materia nei suoi dipinti: la crudezza dei particolari, la graffiante colorazione che dal reale sfiorava quasi l’irrazionalità della forza del vero. Un tratto deciso, espressionistico e di facile attribuzione. Uno spirito passionale, nella pittura, così come nella vita: forse esagerando, si dice che l’artista avesse avuto circa quaranta figli da numerose amanti. “Quello che mi interessa veramente nelle persone è il loro aspetto animale”, aveva più volte affermato. E infatti, nei suoi quadri compaiono molti animali, che affiancava a persone umane, in genere i suoi cari, amici o figli.

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Se guardando le opere di Freud si rimane interdetti per la potente e realistica matericità dei ritratti, con Cy Twombly si intraprende un viaggio interiore fatto di spiritualità e poesia. Artista americano molto legato alla città di Roma tanto da viverci per oltre cinquant’anni,  Twombly è stato definito dall’autorevole linguista Roland Barthes, ‘il pittore di scritture’. Nelle sue opere infatti, presenzia costantemente la scrittura quale gesto istintivo, veloce ed automatico che insieme agli sprazzi di colore si lega all’espressionismo astratto di Pollock e all’astrattismo delicato e soave di Kandinskij. Le opere di Cy Twomblyraccontano del passato e si mescolano al futuro generando un linguaggio enigmatico ed affascinante. Cy Twombly

Più di ogni altro artista americano, Cy Twombly “faceva da ponte tra l’Europa e l’America”. La notizia della sua morte  a Roma, è stata sulle prime pagine dei siti internet europei e americani. Aveva 83 anni.

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Per il Los Angeles Timesla sua opera sfocava i confini tra pittura, disegno e scrittura poetica. È Paul Schimmel, curatore del museo di arte contemporanea di Los Angeles (Moca), a osservare come facesse da ponte tra Europa e America: “Per quasi tutta la sua vita, è stato molto più celebrato in Europa che negli Stati Uniti”. Oggi, insieme a Jasper Johns e Robert Rauschenberg, viene riconosciuto come uno dei tre più importanti artisti americani emersi negli anni ’50.

Schimmel ha lavorato con Twombly per la mostra “Hand-Painted Pop ” del 1992-93 e per una retrospettiva itinerante organizzata nel 1995 dal Museo di arte moderna di New York (Moma). “Il suo lavoro era più una continuazione dell’eredità di Jackson Pollock e di Willem de Kooning e altri pittori astratti espressionisti di prima generazione… Ma ha sviluppato approcci originali”, come l’uso dell’immaginario dell’antichità classica.
Il suo “innamoramento” per l’Europa cominciò nel 1952, quando vinse una borsa di studio e la usò per viaggiare insieme a Rauschenberg, ricorda il Los Angeles Times. Gli artisti trascorsero lunghi periodi a Roma, esplorando musei e antichità, e in Marocco, dove Twombly partecipò a uno scavo archeologico di rovine romane. Nel 1957 decise di stabilirsi in Italia. “Traendo ispirazione dalla poesia, mitologia, storia e dal paesaggio italiano, cominciò a sviluppare una forma di pittura e scrittura astratta, insieme a un vocabolario metaforico”. Nel 1959 sposò Tatiana Franchetti, “artista italiana di una ricca famiglia aristocratica”. L’anno dopo nacque il figlio, Alessandro. E in Italia, da oltre mezzo secolo, passava gran parte del suo tempo. facendo anche lunghe “soste” nella cittadina di Gaeta dove non era dificile incontrarlo nei pressi del famoso BAR BAZZANTI.

"Quarzazat"Nell’arte esistono i Maestri e i discepoli; esiste chi semplicemente si lascia ispirare dai primi e chi li copia rivendicando arrogantemente la paternità dello stile.

Cy Twombly era un maestro.

Dovremmo dire È un maestro, perché la pittura a questi liveli non subisce il peso del tempo. Ma Twombly si è spento il 5 luglio a Roma, la sua seconda casa ormai da quasi quarant’anni. Dove ha deciso di essere sepolto per sempre.

Prima di essere europeo, Twombly è americano: nato a Lexington nel 1928 – il suo vero nome è Edwin Parker Jr. – durante i primi anni del dopoguerra ha avuto la possibilità di studiare alla School of the Museum of Fine Arts di Boston e successivamente alla Arts Students League di New York, dove è entrato in contatto con Robert Rauchenberg che lo ha introdotto in quella fucina di talenti che è il Black Mountain College.

Da qui in poi è storia; sperimenta spalla a spalla con altri geni del calibro di Franz Kline, Ben Shahn e Robert Motherwell, fino alla borsa di studio che lo porta nel Vecchio Continente.

Spagna, Francia e infine Italia.

Per Twombly l’arte consisteva nel ripescare dal passato e non cancellarlo in funzione di qualcosa di nuovo, del futuro; era orientato verso la riappropriazione dei segni distintivi del nostro passato, non della loro distruzione. L’artista doveva diventare un esploratore alla ricerca di reperti antichi da studiare e mostrare all’uomo contemporaneo.

Nelle sue tele è quasi sempre presente la scrittura o un suo simulacro che viene riproposta in ogni episodio accumunando l’espressionismo più puro di Kandinskij e l’informale gestuale di Pollock. Un risultato pre-graffitista che dimostra come alla base della pittura e della scrittura ci siano le medesime caratteristiche: istinto, velocità, sicurezza. Un “pittore di scritture” per citare Roland Barthes.

Osservare le sue – numerosissime – opere non è semplice; occorre molta conoscenza e molta cultura. Tra gli sprazzi di colore e le macchie, che appaiono improvvisamente sull’immensa tela bianca, si possono scorgere richiami di quel passato di cui Twombly si cibava quotidianamente: citazioni dell’antica storia romana e greca, nomi di divinità, di battaglie storiche, di luoghi sacri. Il suo talento era infinito e ha continuato ad eprimersi anche attraverso la scultura e, verso la fine, anche con la fotografia.

“Alla ricerca del tempo perduto“ di Proust è stato un ulteriore spunto di riflessione e di ispirazione per gli scatti proposti nella mostra “Le temps retruvé” per la Collezione Lambert en Avignon.

Così come le riflessioni dell’autore della Ricerca ruotavano attorno alla nostalgia del passato e al tentativo di scovare un modo per controllare lo scorrere del tempo così da potersi sottrarre ad esso, per Twombly quegli scatti, letti a posteriori, hanno il sapore di un testamento spirituale.

Una ricerca dei volti e delle amicizie che lo avevano accompagnato nel corso della sua lunga vita; frammenti raggruppati come in una retrospettiva. Un Maestro che fino all’ultimo ha preferito lasciare parlare le sue opere, quasi a volersi nascondere da un mondo che, probabilmente, non lo rispecchiava più.

Nella sua vita d’artista, ha ricevuto premi dai governi di Francia e Giappone, dalla Biennale di Venezia. “Ha visto le sue opere andare all’asta per milioni di dollari”. Tra i suoi ultimi incarichi, la pittura del soffitto di un’ampia galleria di sculture di bronzo al Louvre di Parigi (La Salle des Bronzes).

“Artista celebrato ed enigmatico”, lo definisce la Cnn. La morte di Twombly è stata annunciata negli Stati Uniti dalla Gagosian Gallery, che rappresenta le sue opere negli Usa e nel mondo. “Il mondo dell’arte ha perso un vero genio e un talento completamente originale”, ha affermato Larry Gagosian, dealer e proprietario della galleria.

Lucian Freud e Twombly si vedevano poco in giro, preferivano far parlare le opere più che promuovere se stessi. Forse nessuno sentirà la loro mancanza ai vernissage e ai party privati tra vip ma il mondo dell’arte ha perso due dèi dell’Olimpo e, per fortuna, la loro arte continuerà a parlare.

Spesso cerco di incoraggiare colleghi, amici o semplici amanti della fotografia a sperimentare, esplorare nuovi orizzonti in maniera tale da dare nuova spinta, nuovi stimoli all’arte delle fotografia. Al di là degli italici confini in MOLTI hanno saputo spingersi oltre il comune senso-concetto “fotografico” elaborando soluzioni degne di nota e dalle prospettive molto interessanti.

Pioniere in  questo caso è sicuramente da considerare Vik Muniz, poliedirico artista contemporaneo brasiliano che “elabora” i suoi lavori, i suoi ritratti (spesso giganti) con ogni sorta di materiale spaziando dagli alimentari alla spazzatura per poi fotografare le opere e rivenderle con buoni riscontri di pubblico.

Sulla falsa riga del lavoro di Muniz si muove l’estro creativo di Inge Jacobsen, giovane studentessa di fotografia presso la Kingston University di Londra, che ha fatto parlare prima ed innamorare poi di sè tutte le grandi firma della moda, con una serie di lavori realizzati con la tecnica del punto croce su riviste patinate quali Harpeer’s Bazzar e Vogue. L’idea di imbellettare le bibbie della moda ruota intorno al concetto (di wahroliana memoria) per cui un oggetto destinato alla “massa” possa trasformarsi in qualcosa di unico grazie soprattutto al lavoro artigianale.
Il risultato sono opere assolutamente  uniche. La Jacobsen ha anche un blog dove riunisce tutti i suoi lavori: dai poster ricamati con questa tecnica fino ai nudi femminili ritagliati a spicchi. “Il mio lavoro inizia facendo piccoli fori direttamente sulle copertine del magazine” ha dichiarato Inge “In questo modo non danneggio troppo la carta. Poi inizio col ricamo che, di solito, mi impiega un tempo pari a due settimane per completare tutta l’opera. Ogni volta, ovviamente, dipende dalla complessità della copertina che scelgo“.

Ulteriori info su: www.ingejacobsen.com

Selene Biffi, ideatrice e curatrice di Plain Ink

Sono una persona democratica questo è risaputo ma in questo caso impongo  a me stesso e di riflesso anche a voi il PRE-ORDINE della copia di LUNA di Plain Ink. E’ una cosa IMPORTANTISSIMA di VITALE IMPORTANZA…e non per scherzare ne va della vita (letteralmente) di altri essere umani (bambini che non hanno alcun tipo di istruzione)

 QUINDI AMICI MIEI DIAMOCI DENTRO E VEDIAMO DI FARE QUALCOSA DI UTLE PREORDINANDO IL LIBRO

cliccando qui http://www.plainink.org/it/bookstore/

Sfogliate anche l’intero sito per rendervi conto della “mission” di Selene Biffi e in allegato anche il link de LA REPUBBLICA che ne parla

 http://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2011/05/12/news/libri_per_cambiare_il_mondo_la_scommessa_di_plain_ink-16129396/

Sono stato sempre attratto dall’opera graffitara ed underground (o meglio dalla sua ANALPHABET ART, come lui stesso la definiva) di Jean Michel Basquiat, più di quanto mi abbiano attirato (e credetemi non poco) le opere del suo contemporaneo ed amico Keith Haring. Due stili diversi, molto più vicino alla pop-art il caro vecchio Haring e molto ma molto  più grezzo, impulsivo e atavicamente violento tutto il lavoro che contraddsistingue l’opera di Basquiat che per sempre sarà ispirata dai “fantasmi da scacciare”. I suoi tratti, i suoi lavori ricordano inequivocabilemente i disegni realizzati dai bambini delle scuole materne e delle prime classi elementari quando le immagini sono restituite da una fantasia vergine ed incontaminata che permette di vedere e rappresentare quei sogni, incubi che da adulti smettiamo razionalmente di vedere. Forme, corpi (o meglio l’elementare rappresentazione della loro anatomia)sono il modo, il mezzo che permettono a Basquiat di rivendicare opera per opera la pienezza perduta. E linee e colori e parole sono un atto di esorcismo: come un rito liberatorio per l’artista posseduto dal personaggio che viene proiettato sulla tele.

Gran parte delle sue opere non ha titolo, ma zombi, arti mozzati, scritte cancellate, maschere nere e occhi sempre vuoti sono tracce forti del suo dolore e del tentativo di cancellarlo, paradossalemente dopo aver ragiunto un buon successo di pubblico, con l’eroina. Ma è espressivo ed esuberante: tolgono il fiato i suoi autoritratti fatti di macchie e scarabocchi; la Figura nera, come una radiografia su sfondo rosso e giallo, è uno sgorbio grottesco posto asimmetricamente a destra dell’opera, a sottolineare una identità frammentata. Bellissima la tela a quattro mani con Francesco Clemente dal titolo «Numero cinque»: donna con testa reclinata e un’ancora affondata nel cuore. E i tre Fantasmi da scacciare sono spettri. Forse rappresentano anche quell’ assenza che lo ha condotto fino al suo tragico destino. Basquiat espone le proprie opere nelle più importanti gallerie, entrando in contatto con i famosi artisti che irrompono sulla scena newyorchese di quegli anni, come Francesco Clemente, David Salle e Julian Schnabel. Nell’autunno del 1982 ha una relazione con una giovane cantante italoamericana, all’epoca ancora sconosciuta, di nome Madonna. Nello stesso periodo entra nella Factory di Andy Warhol.

La conoscenza di Warhol influisce profondamente sulle opere di Basquiat; i due infatti intraprendono una proficua collaborazione, tanto che allestiscono assieme una mostra il cui manifesto li ritrae come protagonisti di un incontro di boxe. Intanto il giovane pittore di origini haitiane inizia ad esporre, oltre che a New York, in tutte le capitali mondiali, come la Galerie Bischofberger di Zurigo, la Delta di Rotterdam, la Kestner Gesellschaft di Hannover, o la Akira Ikeda di Tokio. Il 10 febbraio 1985 il New York Times Magazine gli dedica la copertina, con il titolo: “New Art, New Money: The Making of an American Artist” (Arte nuova, nuovi soldi, la nascita di un artista americano), consacrandolo come astro nascente della pittura statunitense. I lavori di Basquiat riflettono soprattutto la condizione della comunità afroamericana. Le figure semplici, i bambini che giocano sullo sfondo della metropoli nordamericana, in cui le parole, spesso cancellate, irrompono sulla tela come parte integrante, sia concettuali che decorative. Lo stesso Basquiat afferma: “cancello le parole, in modo che le si possano notare – il fatto che siano oscure spinge a volerle leggere ancora di più”. Il talento di Basquiat potrebbe essere sintetizzato con le parole di Henry Geldzahle, per anni curatore del Metropolitan Museum of Art (che per due volte rifiuto le opere di Basquiat): “il suo lavoro nasce come concezione, enigmatica e concettuale di simboli e parole, eseguita con l’incisiva semplicità delle tarde iscrizioni romane”.

Basquiat però è un personaggio oscuro, incapace di bilanciare il successo artistico con i propri demoni interiori. Sin da giovane aveva sempre fatto uso di droghe, ma, a quanto scrive la biografa Phoebe Hoban, dopo la morte di Warhol, nel 1987, diventa sempre più depresso e paranoico. Tanto che il 12 agosto 1988, a soli 27 anni, muore nel suo loft newyorkese per un mix di cocaina ed eroina (in slang, speedball). In uno degli ultimi appunti prima della morte lascia una riflessione proprio sul successo: “Da quando avevo 17 anni, ho sempre pensato che sarei diventato una star. Dovrei pensare ai miei eroi, Charlie Parker, Jimi Hendrix… avevo un’idea romantica di come le persone diventassero famose”.

Nel 1996 è uscito il film “Basquiat”, diretto da Julian Schnabel, interpretato da Jeffrey Wright, e con David Bowie nei panni di Andy Warhol (nel cast anche Benicio Del Toro, Dennis Hopper, Gary Oldman, Christopher Walken, Willem Dafoe e Courtney Love). Il 14 maggio 2002 la casa d’asta Christie’s ha battuto per 5.509.500 dollari il quadro “Profit I”, opera di Basquiat in precedenza appartenuta al batterista dei Metallica Lars Ulrich. È la cifra più alta per un una sua opera, ma il 15 maggio del 2007, la casa d’asta newyorchese Sotheby’s ha venduto un’opera senza titolo di Basquiat per 14.6 milioni di dollari. Il 12 novembre 2008, Lars Ulrich ha venduto “Untitled (Boxer)” per 12 milioni di dollari.